- Hildur Guðnadóttir -
Chiudiamo il 2016 riproponendo un mio vecchio articolo scritto su The New Noise: perchè la parola saman, in islandese, vuol dire insieme.
- Saman -
Quarto album in studio – sempre per la britannica Touch – per la graziosa e brava violoncellista islandese Hildur Guðnadóttir.
Basta con l’inglese, questa volta la musicista decide di espellere
definitivamente le proprie emozioni attraverso la lingua madre, come
testimoniano i titoli delle dodici brevi tracce, nonché il titolo,
“Saman”, che tradotto significa insieme.
Crepuscolare e infarcito di chiaroscuri
(in verità più scuri che chiari), Saman forse racchiude e vuole
raccontare una storia d’amore finita male, cercando disperatamente di
scrostarsela di dosso. Per certi versi il violoncello suonato in questa
maniera potrebbe ricordare alcuni passaggi inquieti stile Haxan Cloak
del primo disco omonimo o Hermann Kopp, anche se in questi casi è il
violino a farla da padrone. Per questo motivo a tratti suona
tremendamente noir e lugubre (“Í Hring”), mettendo ansia e terrore, ma
sono le struggenti parti vocali – “Heima” (casa) su tutte – a riportarlo
sui binari più consoni, vale a dire lacrimevoli. Poesie leopardiane,
cartoline sbiadite e nebbiose (“Þoka”, ovverosia nebbia), paesaggi
autunnali, pioggia battente che somiglia a lacrime color sangue, marce
foglie di salici piangenti che si staccano dalle pareti interne del
cuore come fossero pezzetti di racconti tristi da seppellire, e petali
di rose rosse che, trasportate dai sospiri, si adagiano dolcemente nel
profondo dell’animo per lì rimanere in eterno.
Non ci va molto a capirlo, ci sono
malinconia e tristezza da vendere in questo disco. È commovente e
profondo, insomma, quei tipici suoni caldi che da queste parti
etichettiamo con la solita frase: l’inquieto che quieta.
... buona lettura et buon ascolto!
Nessun commento:
Posta un commento