- Lustmord -
« Confutatis maledictis,
flammis acribus addictis,
voca me cum benedictis.
Oro supplex et acclinis,
cor contritum quasi cinis,
gere curam mei finis »
Lo so, vi state domandando perché come apertura ci sia un estratto del Requiem di Tommaso da Celano, musicato peraltro magistralmente dal grande Mozart. Ero giovane quando vidi per la prima volta il film Amadeus (1984) di Milos Forman, non sono qui a manifestare la grandiosità della pellicola, non posseggo le credenziali, ma la sequenza, in cui sentii le note e le parole del Confutatis, mi rimase subito impressa nella memoria. È traumatizzante ascoltarle ancora oggi, e chissà, chi può saperlo, forse son servite da flusso canalizzatore, indirizzando gli ascolti futuri verso quei generi dal fare oscuro e malinconico.
Sì, ok, ma che c’azzecca con il genere musicale di cui Lustmord oggi è una delle autorità mondiali in assoluto? Ecco spiegato: a distanza di molti anni e con l’orecchio (forse) leggermente più allenato, trovo che non sia poi così scandaloso collocare la data di nascita del dark-ambient con quel breve ma intenso passaggio. Però sono una cattiva persona, e siccome non riuscirei mai a scrivere una amplia antologia sulla discografia del gallese Brian Williams (vero nome di Lustmord), cercherò di trattare solamente un determinato periodo della sua attività artistica. La faccia nascosta del pianeta Lustmord è quel periodo che va 1992 al 1994, quello che non ha nulla a che vedere con quell’opprimente sonorità, quegli anni racchiusi fra il monolite Heresy (1990) e il monumentale Stalker (1995), quest’ultimo in collaborazione con Robert Rich.
Lustmord è la moderna dark-ambient? Ovvio, non ci sono dubbi, tant’è che per molti artisti è tuttora fonte d’ispirazione. Ma lui non è solo dark e ambient uniti assieme da un minuscolo trattino, non è un artista monotematico, anzi, forse è meglio ricordare il suo breve trascorso negli australiani SPK e la collaborazione con John Balance (Coil) nell’album A Document Of Early Acoustic & Tactical Experimentation, e il titolo dice tutto. Ed è attraverso questo bagaglio sperimentale, industrial e noise, che nell’arco di soli tre anni, rilascia altrettanti affascinanti lavori, e ognuno diverso dall’altro, ed eccoli proposti in rigoroso ordine cronologico.
TERROR AGAINST TERROR – Psychological Warfare Technology Systems [1992]
Le avvisaglie si erano già percepite qualche anno prima con un progetto electro-industrial chiamato T.G.T. (The Genetic Terrorists), che includeva Cosey Fanni Tutti e Chris Carter (entrambi ex Throbbing Gristle) e che, per imprecisati motivi, non proseguì, restando nella memoria con pochi singoli pubblicati per la rinomata Wax Trax. Poco importa si sarà detto, persi due artisti, anche se di spessore, rivolge l’attenzione su Andrew Lagowski, storico performer della synth-darkwave band Nagamatzu. Così, nel 1992, contemporaneamente nasce Terror Against Terror e la relativa prima uscita per la tedesca Paragoric (sublabel della Dark Vinyl), finora mai più ristampata. Erano gli anni a cavallo fra gli Ottanta e Novanta, tempi d’oro per l’electro-industrial e l’ebm; la scena belga e olandese che fronteggia quella del nuovo continente, soprattutto canadese, in altre parole la parte più danzereccia (che non s’intenda in modo riduttivo) che sfida quella concettuale, insomma: i Front 242 che guardano in malo modo i Front Line Assembly, e viceversa. A questo punto non è una casualità se in questo periodo e con queste traiettorie emergono e si consolidano gruppi come i Nine Inch Nails o Suicide Commando. Psychological Warfare Technology Systems è il fatidico anello di congiunzione, quello che suona innovativo ma che al tempo stesso faccia danzare sulle piste e nelle gabbie muniti di maschere antigas e occhiali da saldatore. L’album ha movimenti di stampo bellico e istinti rivoltosi, a cominciare da By Any Means Necessary e proseguendo con Hunter Killer che, tra sirene, pistolettate, vomiti e fiumi alcolici ti scaraventa nella prima fila di una corsa automobilistica tenuta dentro il recinto di una fabbrica siderurgica sotterranea. Movenze epilettiche e urlacci synth-punk sparsi un po’ in giro si uniscono raggiungendo l’apice con la lentezza psicotica e il terrore acido di (Psychological Warfare), le atmosfere post-atomiche e la corrosione termonucleare di Stalker (la mia preferita), ai rimasugli anarchici post-industriali associati a idee di distruzione di massa di Destroidmonster, all’odore del sangue coagulato e, infine, al suono delle frustate batteriologiche di Mutually Assured Destruction: dont’ be afraid!
ISOLRUBIN BK – Crash Injury Trauma [1993]
Concepito e prodotto nel 1992 (engineer sempre il nostro Lagowski), Crash Injury Trauma esce sugli scaffali l’anno successivo per merito della Soleilmoon, che lo ristamperà poi nel 2009. Album concettuale, come un po’ tutti del resto, prende ispirazione da fatti accaduti e testi descrittivi relativi ad investigazioni scientifiche e probabili cause dalle quali ne sono derivati gravi incidenti automobilistici. Noise, industrial e musique concrète che si fondono assieme per una sorta di meticolosa indagine stile CSI suddivisa in tre fasi: il punto d’impatto e il danno materiale (Crash), l’analisi e tutte le ipotesi susseguenti, perfino quelle complottistiche (Injury) e la morte tragica e sanguinolenta dell’individuo/guidatore (Trauma). I titoli stessi confermano che si tratta di un lavoro violento come concept ma con sonorità dagli effetti antibiotici, tanto che la (trasparente) aggressività dei brani - mescolata con spoken radiofonici e dibattiti televisivi – finisce per sfociare in alcuni passaggi ibridi fra idm e post-industrial di matrice tedesca; per cui, tra una sgommata sull’asfalto, una frenata improvvisa, autoambulanze che sfrecciano sulle highway, cinture di sicurezza che saltano come fossero corde tese di un violino, airbag che esplodono, parabrezza in frantumi, i rumori delle molature dei pompieri che cercano di trovare un varco tra le lamiere accartocciate e le diagnosi di paramedici incompetenti, il disco corre lungo un binario, articolato e strutturato per evidenziare la pericolosità dell’automezzo, evitando il rischio di procurarci fratture craniche, arti smembrati e budella spappolate.
ARECIBO – Trans Plutonian Transmissions [1994]
Certo che facendo la sommatoria fra il nome (Arecibo è l’osservatorio astronomico situato in quel di Porto Rico) e i titoli (le sigle di alcune nebulose e le trasmissioni sonore provenienti oltre il sistema solare), potremmo chiudere con queste poche righe, perché è ben chiaro di quale tipologia di sonorità trattasi: space-ambient siderale e transplutoniana. La componente essenziale per questo genere è che si avverta quella sensazione di nulla, di infinito, di profondità e di fantascienza. Nessun problema, qui si va oltre quella invisibile energia oscura che regola le dimensioni spazio-tempo permettendo l’espansione dell’universo. Più gli anni luce aumentano e più il freddo pungente avvolge con uno spesso strato di ghiaccio l’astronave (M87) e la fantascienza si trasforma in terrore alieno e inquietudine intergalattica (3C147), a tal punto da far rivivere gli attimi finali del libro Alien di Alan Dean Foster: carbonizzato, l’alieno si allontanò dalla navicella, e nell’attimo in cui si staccò, l’acido smise di sgorgare. Anomale intermittenze di raggi gamma espulse da lontanissime quasar, rimembranze cosmiche che annunciano una imminente catastrofe (NGC 5417), pulsanti e minacciosi linguaggi rettiliani da decifrare (3C925), drone incandescente e sulfureo proveniente da razzi motori prossimi al collasso (NGC 5128), traiettorie ellittiche di asteroidi e micro collisioni dark-ambient (NGC 5426). Trans Plutonian Transmissions (ristampato nel 2009 dalla Soleilmoon) si avvale di sorgenti o registrazioni sonore derivanti da radiazioni termiche, pulsar, supernove, interazioni di particelle elettriche e altro, catturate dal Jet Propulsion Laboratory della NASA. Paradossalmente è l’unico disco del trittico che non vede la collaborazione di Andrew Lagowski, che strano... però, chi mi dice che proprio il progetto S.E.T.I. non sia nato durante la realizzazione di questo disco?
Conclusione: sembrerebbe essere stata una parentesi, visto che questo periodo semi-nascosto non si è più ripetuto negli anni. Sta di fatto che Lustmord, incide e lascia nella discografia mondiale tre macigni totalmente differenti dalle opere per le quali lo conosciamo, testimoniando (ma non vi è bisogno) la propria versatilità e disinvoltura nell’affrontare altri aspetti/spettri sonori. Tre album notevoli, ma se devo sceglierne uno da consigliare, eh beh, per ragioni legate ad un periodo frivolo e giovanile, non ho dubbi: Psychological Warfare Technology Systems è altamente sopra le righe… ancora oggi, avendo alle spalle più di quattro lustri.
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